giovedì 14 aprile 2011

TRA PONTE A ELSA E LA SCALA: IL SITO ARCHEOLOGICO DI SAN GENESIO

di Fabio Cappelli

Fig.1. San Genesio così come si vede dalla Tosco Romagnola
Sul fatto che in passato fosse esitito un borgo denominato  San Genesio non era un segreto per nessuno, della consapevolezza che, a più riprese, ad opera di agricoltori locali fossero riemerse dai terreni delle tracce evidenti che in quella precisa area del Comune di San Miniato ci fosse stato qualcosa per la quale sarebbe valsa la pena concentrare un po' più di attenzione, anche questo era un fatto risaputo, ma che lungo la SS67 Tosco Romagnola Est, tra le frazioni di Ponte a Elsa e La Scala esistesse una vera e propria necropoli, le cui origini più remote si fanno risalire niente di meno che al VII secolo a.C. questo certamente era sconosciuto a tutti.
Fig.2. la targa in corrispondenza del sito
Vico Wallary, così come riporta una targa con scritta bianca su sfondo marrone, è uno dei toponimi con il quale il borgo di San Genesio è stato denominato nel corso dei secoli con l'avvicendarsi delle popolazione che qui si sono stanziate.
La sua riscoperta, avvenuta in maniera fortuita in seguito a dei lavori di sbancamento che nel  2001 vennero effettuati in quest'area, ha riportato alla luce un capitolo di storia e di una civiltà antica, lontanissima da noi nel tempo, ma vicinissima nello spazio, tale che dovremmo andare orgogliosi e al tempo stesso testimoni della sua importanza.
Di fatto, interrotta frettolosamente l'attività di sbancamento, che fin da subito ha riportato alla luce oggetti dei quali si è compreso ben presto l'importante valore archeologico, è iniziata la lenta opera di indagine, scavo e catalogazione dei reperti che a poco a poco il terreno restituiva dopo un oblio di almeno 700 anni!
La cosa interessante è stato riscoprire che in questo luogo non è esistito il solo  insediamento di San Genesio, bensì più insediamenti, Vico Wallari appunto ne è un esempio, questi si sono sovrapposti con fasi alterne di fortuna, importanza e durata, e con una sola data certa, anno 1248, quello che sancirà la fine di borgo San Genesio, è documentato infatti che in quell'anno, i sanminiatesi, per sottrarre a Lucca i domini ritenuti di propria pertinenza, decisero di porrè definitivamente termine alla comunità che viveva ai piedi del colle,  ritenuta ormai da tempo una rivale scomoda e una spina nel fianco per gli interessi della roccaforte federiciana, arrivando così a prendere la drammatica decisione di radere al suolo l'intero abitato.
Fig.3. I resti dell'antica pieve
Fino a quel momento la vita di questo nucleo era stata relativamente fiorente, famosa è la sua citazione ad opera dell'Arcivescovo di Canterbury Sigerico, che ne farà menzione come tappa lungo la via Francigena al suo ritorno da Roma.
L'abitato, per la sua favorevole centralità rispetto ad altri importanti centri della Toscana, conobbe intorno al 1100 un notevole sviluppo, qui fu eretta un'importante pieve nella quale furono, a più riprese indetti degli incontri con quelli che oggi chiameremo i "vertici del potere", per dirimere importanti questioni di carattere politico e religioso, verrebbe quasi da dire che a pochi metri da casa è passata la grande storia, quella che nello scacchiere geopolitico di quei tempi ha inevitabilemente influenzato anche quegli eventi che si sarebbero succeduti da dopo di allora.
Non vorrei dilungarmi oltre in spiegazioni che meglio di me potranno dare  coloro che in prima persona si sono prodigati sul campo nella ricerca della verità storica, degli avvenimenti e dei fatti che hanno riportato alla luce in nome della "conoscenza" per noi cittadini del terzo millennio, offrendoci uno spaccato delle vicissitudini di quelle lontane genti che molti secoli prima della nostra epoca hanno vissuto su quelle stesse terre che noi ci accingiamo ogni giorno a percorre  avanti e indietro; rimando pertanto  con questo link ad approfondimenti sulla materia trattata. http://www.paesaggimedievali.it/luoghi/genesio/index.htm

domenica 20 marzo 2011

MTB - TECNICA DI GUIDA

PREFAZIONE
di Fabio Cappelli

Filippo Gazzarrini, un biker della prima ora, uno dei cardini delle MTB100%, già autore del precedente inserto “CALENDARIO GARE TOSCANE MTB”, ha deciso di regalarci con questo nuovo post alcune brevi, ma interessanti nozioni di carattere tecnico-meccanico per affrontare i percorsi per mountain bike, in modo particolare quelli più impegnativi, i così detti single track, del quale questo blog ha dato già una descrizione in un precedente post.
Le informazioni di seguito riportate sono rivolte ai bikers che con le ruote grasse hanno già una certa dimestichezza e almeno qualche centinaio di chilometri sulle gambe, consigliamo inoltre una progressiva evoluzione nella pratica della mountain bike e di adattare i consigli di seguito riportati alla proprie capacità, ricordando che affrontare con la mountain bike tratti tecnici può avere risvolto molto divertente ma da non confondere mai con un gioco!
Buona lettura.

MTB - TECNICA DI GUIDA

di Filippo Gazzarrini

nella pratica della mtb, a differenza della bici da corsa, occorre avere anche una buona dote di tecnica oltre ad una adeguata preparazione fisica.
Questo è fondamentale per affrontare un percorso di gara dove, sempre più spesso, vengono inseriti tratti molto impegnativi in single track, ma e' altresì importante per chi pratica la mtb solo per hobby per potersi divertire in fuoristrada.
Innanzi tutto e' d'obbligo una piccola premessa.
Componente fondamentale per avere una buona tecnica di guida in fuoristrada e' il cosi' detto "manico" e un buon equilibrio e questo non dipende da noi ma da madre natura.
Ciò non toglie che tutti possiamo migliorare con un po' di pratica e con impegno, vediamo come.

IL SETTAGGIO DEL MEZZO MECCANICO:

per prima cosa (dando per scontato l'utilizzo dei freni a disco) io consiglio di impostare i comandi al manubrio nel seguente modo:
i freni devono stare all'interno dei comandi del cambio ovvero partendo dalle estremità del manubrio troviamo nell'ordine:
  1. manopola
  2. comando cambio
  3. leve freno.

Questo serve per poter agire con il solo dito indice (e non con il medio) sulla punta della leva freno (e non al centro).
Così facendo il dito medio resta sulla manopola garantendoci un controllo migliore allo sterzo e il dito indice e' in grado di garantirci pinzate potenti lavorando con una leva maggiore.
Sempre per avere un buon controllo nei tratti più impegnativi occorre avere una impugnatura il più larga possibile allo sterzo quindi, togliere le appendici (o corna) dal manubrio che, oltre ad essere antiestetiche, possono agganciarsi negli alberi percorrendo stretti single track.
Altro espediente che suggerisco a chi proviene dal mondo del motocross o dei motori, e' quello di invertire i freni, ovvero anteriore a destra e posteriore a sinistra (per chi monta freni Avid basta svitare e girare, per chi invece usa Shimano la cosa è più complicata dovendo invertire le tubazioni).

COME AFFRONTARE UN TRATTO IN DISCESA:

quando ci troviamo di fronte un tratto in discesa con forte pendenza, curve in serie e ostacoli da superare dobbiamo anzitutto portare il peso del corpo sul posteriore della bici per evitare di cappottarsi in avanti, e abbassare il baricentro per avere più stabilita'.
Quindi tendiamo le braccia puntandoci sul manubrio, puntiamo i piedi sui pedali portando i talloni verso il basso, abbassiamo il busto stendendoci sulla bici e portiamo il peso del corpo verso la parte terminale della sella, se necessario fino ad uscire dalla sella stessa (il così detto fuori-sella).
Nei tratti più veloci posizioniamoci in modo tale da poter stringere la parte più larga della sella con l'interno dell'inguine per consentirci il controllo della bici che viene gestita con i movimenti del busto e del bacino, nei tratti più lenti o dove la pendenza e' accentuata arretriamo anche al punto di uscire completamente dalla sella stessa arrivando con il sedere fin sopra la ruota posteriore.
Dobbiamo altresì tenere lo sguardo alto, non fissiamoci sulla ruota anteriore ma cerchiamo di guardare lontano per poter anticipare l'ostacolo e decidere in anticipo quale traiettoria impostare.
I due indici sempre sulle estremità delle leve freno per poter pinzare se necessario, e la presa ben larga sullo sterzo per un maggior controllo.

CONCLUSIONI

a questo punto siete pronti per affrontare la "bestia nera" della mtb, il single track e se avete ancora incertezze ispirativi a questo motto:
"nel dubbio... tengo giù!"

domenica 13 marzo 2011

I SEGRETI DI MONTEFALCONE

di Fabio Cappelli
 
Questo è il resoconto di una giornata particolare, una giornata dove andare in bicicletta si è rivelato solo un pretesto per scoprire un luogo raramente visitato, un luogo che talvolta ai più risulta essere sconosciuto e per altri semplicemente snobbato a causa della sua vicinanza ai poli produttivi del comprensorio del cuoio, si tratta infatti della Riserva biogenetica di Montefalcone, essa infatti, circoscritta all'interno delle colline delle Cerbaie, incide su di un'area posta poco distante dall'abitato di Castelfranco di Sotto e che contrariamente a quello che si può pensare si è rivelata essere un luogo affascinante e degno di essere raccontato per le sue peculiarità.
L'inizio di questa giornata di giugno, baciata da uno splendido sole primaverile è stato l'ingresso da Casa Nacci, un presidio del Corpo Forestale dello Stato attraverso il quale si accede all'area protetta della Riserva, la quale contando su una superficie di 503 ettari risulta essere totalmente recintata e caratterizzata da una fitta vegetazione di piante ad alto fusto, composta prevalentemente da pini, cerri, farnie, carpini e castagni.
La prima sosta, subito dopo il cancello d'ingresso, avviene in prossimità di un grande pannello in legno che ci racconta, avvalendosi di una grafica semplice, la storia geologica delle Cerbaie, le quali hanno avuto origine, in estrema sintesi, dalla sedimentazione sui fondali marini, circa 3 mln di anni fa, di detriti alluvionali dei rilievi del Montalbano e dei Monti Pisani, successivamente col ritiro del mare preistorico e un'opera simultanea di erosione, hanno preso forma le colline omonime così come noi le vediamo oggi; le tracce di quel lontanissimo passato sono testimoniate dagli innumerevoli resti di conchiglie che affiorano qui come un ovunque nel circondario.
all'interno della Riserva
Poco dopo la risalita dal vallino è prevista ancora una sosta, stavolta sul ciglio delle acque limacciose del lago delle voliere, che deve il suo nome appunto a delle grandi voliere per uccelli che si trovano nelle sue immediate vicinanze e che ospitano molte varietà di volatili che spesso non possono essere più reimmesse in natura poiché non si tratta di fauna locale ma di specie alloctone, che purtroppo, individui senza scrupoli non hanno esitato ad importare di contrabbando da paesi esotici strappandoli per sempre ai loro luoghi d'origine.
marginetta dei brasiliani
Il viaggio prosegue, e la sosta successiva ha il sapore dell'amarcord, una retrospettiva nei ricordi testimoniata da un luogo più metafisico che reale, un manufatto in pietra costruito più di 60 anni fa da degli uomini, dei soldati, che anch'egli, un po' come quegli uccelli delle voliere del lago, dovettero lasciare la loro terra, il Brasile, per venire in Italia a combattere in affiancamento all'esercito americano nella grande campagna per liberare l'Europa dal nazifascismo; la piccola opera che nelle fattura imita la grotta di Massabielle a Lourdes era adibita alle funzioni religiose, e con la sua forma ad arco era un ponte ideale fra i boschi delle Cerbaie e le foreste dell'Amazzonia. 
Finita la guerra, i soldati brasiliani ritornarono alle loro case non senza aver lasciato un bel ricordo fra i cittadini del luogo, mentre il piccolo monumento  cadde nell'oblio della vegetazione, fin quando la sua riscoperta da parte un appassionato locale e il suo ripristino ha dato nuova vita a questo angolo della memoria.

stagni dentro la Riserva
Chiusa la parentesi storica è di nuovo la natura a prendere il sopravvento, una natura incredibilmente selvaggia, per certi versi quasi preistorica, un paesaggio ancestrale fatto di ruscelli, stagni, piccole paludi, radure e alberi, colline intercalate da avvallamenti, trafitte qua e la da un pulviscolo di luce quasi spettrale, una natura ricca di una biodiversità talvolta caratterizzata da una flora che non ha eguali pressoché in nessun altro luogo, a tal proposito cito come esempio una piccola piantina, simile al trifoglio di cui se ne ha conoscenza solo in questo luogo, anzi per quanto ci è dato conoscere, l'esemplare visto in questa giornata è praticamente l'ultimo rimasto!!.
La Riserva, in quanto punto di passaggio e nidificazione di molte specie di uccelli migratori, rivela la sua natura di approdo sicuro circoscritta all'interno di aree fortemente antropizzate,  qui sono  molte le varietà di rapaci che vi trovano rifugio, la fauna in generale, caratterizzata prevalentemente da daini, cervi, volpi, cinghiali e da molte altre specie, può ancora sperare in una sopravvivenza al riparo dalle eccessive ingerenze umane, aggirandosi indisturbatamente  in questo meraviglioso polmone verde .
la via Francigena alle Sette Querce
La cronaca di questa gratificante giornata all'interno della Riserva di Montefalcone termina qui, ma vale la pena, prima di concludere, anche ricordare che a pochi passi dalla Riserva, nella zona delle Sette Querce transitava in epoca medievale la via Francigena, che da Altopascio attraversando l'area delle Cerbaie, si immetteva nel Valdarno inferiore, facendo avvicinare passo dopo passo i pellegrini partiti dal nord Europa alla Città Eterna.




mercoledì 16 febbraio 2011

IL SINGLE TRACK

 di Fabio Cappelli

Strade bianche, viottoli, sentieri e mulattiere; sono questi gli habitat naturali dei bikers, a questi si aggiungono i così detti “single track”, con questo termine di origine anglosassone rientrano già una buona parte delle precedenti definizioni relative a tutta quella viabilità tipica del fuori strada, ma volendo approfondire l'argomento cercherò di spiegare cosa sia più nel dettaglio un single track e perché è cosi amato da gli estimatori delle ruote grasse.
Con il termine single track si vuole identificare un percorso stretto, percorribile da una bici alla volta, tale condizione, specie in ambito agonistico, ha una rilevanza fondamentale, infatti la conseguenza facilmente intuibile, trovandosi davanti ad un passaggio di questo tipo (cosa pressoché scontata in una gara di MTB) è di non poter effettuare sorpassi; questo fatto, specialmente durante una competizione, può rivelarsi un fattore decisivo per il proseguo della medesima, ed è quindi evidente che una buona posizione sulla griglia di partenza risulti essere determinante se si ambisce ad un piazzamento di prestigio! In relazione alle gare, è da sottolineare che in alcune di esse è previsto il cronometraggio proprio dei tratti in single track, finalizzati a stilare una classifica per premiare la capacità del concorrente che più di altri ha messo in evidenza le proprie abilità nello stare in sella.
Il single track si colloca per antonomasia nell’ambiente bosco, in genere, volendo escludere quelli che vengono creati ex-novo, questi non sono altro che una condivisione di quella stessa viabilità usata da cacciatori, tartufai e boscaioli sviluppatasi col tempo per addentrarsi nel fitto delle macchie, altre volte la loro origine è del tutto naturale come nel caso dei profondi canaloni venutisi a creare in seguito all'erosione del terreno da parte delle acque piovane, (questi tipi di single track sono particolarmente belli e ricercati)  i quali se opportunamente ripuliti da fogliame e detriti assolvono perfettamente allo scopo; talvolta i single track, specie nei luoghi di montagna, possono coincidere  con la sentieristica ufficiale per l'escursionismo.
Per un biker la concretizzazione perfetta di un single track è quella di un tracciato molto lungo, scavato a mo di canyon nel terreno,  immerso nei colori del bosco, con andatura sinuosa, una moderata discesa e da percorrere tutto d'un fiato! Ma a parte questo prototipo ideale esistono molte soluzione apprezzabili di single track (anche con lunghi tratti in salita), la loro essenza sta sostanzialmente nella velocità (ma non necessariamente), nel senso di libertà, nel contatto quasi fisico con la natura e nella scossa adrenalinica che essi sprigionano.

Un'altra caratteristica fondamentale di un single track, sta nella morfologia del terreno, essa infatti prevede un impegno tecnico notevole inoltre può anche essere fonte di enfatizzazione di quella percezione di velocità che già di per se risulta apprezzabile  quando si sfreccia di fianco ad una folta successione di alberi; questa caratteristica morfologica, si materializza appunto in cunette e dossi, salti e solchi, curve e controcurve, rocce affioranti e radici, tronchi e scalini in una frenetica e continua evoluzione del sottofondo percorso, e che obbligano il biker ad una rapidissima valutazione degli ostacoli e a decidere attimo per attimo la traiettoria migliore da seguire.
Infine vi è una componente oltremodo ancora più tecnica della precedente, se gli ostacoli sopracitati infatti si traducono spesso in lievi asperità del terreno che contribuiscono a renderne la percorrenza veloce, sicura e divertente, ne esistono altri che per difficoltà risultano essere molto meno scorrevoli, ne facili da affrontare, le principali cause sono imputabili al tipo di fondo che li caratterizza, che spesso risulta essere fortemente dissestato, con passaggi critici, come possono essere delle pietraie, pendenze molto accentuate, terreni fangosi o sabbiosi, solchi profondi che tagliano trasversalmente  i tracciati rispetto al senso di marcia, tratti con scarpate o tratti esposti a precipizi; ovviamente tutti queste difficoltà tendono ad esaltare o a sminuire le capacità da equilibrista proprie di ogni atleta.

Elenco dei single track di zona:
-          del gabbiano (Comune di Montopoli, inserito anche nella XC del trofeo 10 Comuni, è breve ma molto divertente, tutto in discesa)
-          del metano (Comune di Palaia, non è lunghissimo, ma piuttosto tecnico, richiede buone dosi di equilibrio, sviluppandosi con cambi di traiettorie e pendenze improvvise )
-          Moriolo (Comune di San Miniato, modesto nello sviluppo, è un ottima palestra di tecnica, tutto in discesa)
-          Molino d’Egola (Comune di San Miniato, più che un s.t. sono una serie di piccoli s.t. che con un po’ di conoscenza del loro sviluppo possono essere percorsi in successione traendone un percorso lungo, divertente e tecnico)
-          Della GF della Valdelsa (Comune di Montaione, inserito nella GF della Valdelsa, è, con ogni probabilità uno dei più belli e completi s.t. percorribili nel circondario, molto lungo, con tratti prevalentemente in discesa scavati nella terra, intervallato da strappi in salita, guadi di ruscello, da provare)  

PS: in merito ai single track sopracitati, chiunque può esprimere una propria preferenza su quello che ritiene rientrare più nelle sue corde o darne per ciascuno un giudizio ulteriore, inoltre chiunque volesse può far menzione di altri s.t. nel compresorio sanminiatese dandone una sommaria descrizione delle caratteritiche e la sua ubicazione.

domenica 30 gennaio 2011

CASTELVECCHIO: LA CITTA' PERDUTA

di Fabio Cappelli

la prima parte del sentiero
La Toscana come sappiamo è una regione che ha conosciuto sul suo territorio l'avvicendarsi di molte civiltà ed epoche storiche, dal remoto passato etrusco per passare al dominio romano e ancora il Medioevo, il Rinascimento e così fino ad arrivare all'epoca contemporanea.
Ogni epoca ha regalato ai cittadini del XXI secolo un patrimonio dal valore inestimabile del quale troppo spesso si è portati a dimenticare, gioelli di arte urbanistica e archiettonica che sono il risultato del genio dei nostri predecessori, della loro necessità di trovare un'armonia con un'ambiente che già porta con se un valore intrinseco immenso e che dall'ambiente hanno ricavato le materie prime semplici e durevoli per costruire grandi città, castelli, borghi e insediamenti che sono giunti fino a noi.
il mastio
Ci sono città che a fasi alterne hanno conosciuto periodi fiorenti ed altri di decadenza, borghi un tempo al centro di una vivace attività commerciale, che col cambiare dei baricentri dell' economia  hanno conosciuto un progressivo calo demografico,  mentre al contrario villaggi semi-disabitati, hanno ritrovato, in sintonia anche con le recenti tendenze di un ritorno al vivere slow una nuova vitalità!
La città di cui però vi voglio parlare non rientra in nessuna di queste categorie, questa città è ormai tornata a far parte della natura, inghiottita da essa ormai da lungo tempo, una città che ha conosciuto intorno al 1200 un periodo di splendore e che ora è solo un insieme di rovine in balìa degli elementi, vi voglio parlare della città perduta di Castelvecchio.
Quando mi ci hanno portato per la prima volta, nel momento esatto in cui, alla fine di un sentiero sconnesso nel folto della selva mi sono trovato davanti agli occhi una torre che svettava da una mare di verde sono rimasto meravigliato, una meraviglia dettata dal fatto che semplicemente non te l'aspetti!
La prima sensazione che pervade l'osservatore è lo stupore, non di rado infatti, per chi ama fare lunghe passeggiate in mezzo alla natura capita di imbattersi in ruderi di vecchie fortificazioni medievali, di pievi isolate, o di qualche avamposto d'avvistamento, ma Castelvecchio no, qui c'è molto di più, scendendo dal sentiero per poi risalire lungo lo sperone roccioso che ospita  il mastio, si offre infatti al visitatore la vista di un'autentica città perduta, una Angkor in piccolo nelle foreste di casa nostra!
La chiesa
Posta attualmente entro i confini del Comune di San Gimignano, Castelvecchio è stata in epoche passate contesa dalla stessa San Gimignano e dalla vicina Volterra, aspre battaglie combattute dalle due potenze rivali fecero scivolare a più riprese entro in confini dell'una o dell'altra parte la città fortificata che per un breve periodo provò anche a ergersi al ruolo di libero comune, tuttavia troppo debole per garantirne una duratura indipendenza schiacciata com'era dalle mire egemoniche di vicine tanto ingombranti, in breve, alla fine del 1300 entrando sotto la definitiva sfera d'influenza di San Gimignano, Castelvecchio, ormai non più caposaldo strategico, impoverita dai precedenti saccheggi e decimata la sua popolazione dalla peste nera, conobbe un rapido declino, al punto tale che le cronache ci riportano che dalla fine del 1600, quello che un tempo fu il grande castello ormai era solo un villaggio che la natura, unica vera vincitrice, stava riprendendo a se.
Cisterna per l'acqua
Oggi, come ho avuto modo di anticipare, Castelvecchio è una città perduta, invisibile ai più, se non addentrandosi per quache chilometro a piedi nella macchia selvaggia e lussureggiante, una volta arrivati potrete osservare i resti di un villaggio che la civiltà contemporanea ha purtroppo smarrito, un luogo surreale al cui passaggio sembra ancora di sentire l'eco delle voci e  dei rumori delle persone che vi hanno abitato, girovagando per i ruderi si può volare con la fantasia provando a immaginare quale fosse la vita di chi vi risiedeva più di 600 anni fa!
Ora come allora, le case, ormai crollate, erano lo spazio quotidiano entro il quale si svolgeva l'attività delle famiglie, al suo interno avremmo visto bambini e adulti che animavano  l'intimità del focolare, mentre affacciandosi per le strade prendeva vita ogni giorno il via vai dei cittadini che movimentavano la piazza, le botteghe, i luoghi di culto e gli edifici dedicati alla vita istituzionale, avremmo visto certamente mercanti e artigiani, maestranze impegnate nelle loro attività, guardie di presidio sulle mura di cinta, uomini di chiesa intenti a diffondere il Vangelo; ma tutto ciò, se mai corrispondesse anche alla realtà di quei tempi, prende forma solo nelle menti più fantasiose,  di fatto, di tutta questa vita decantata non resta nient'altro che la fredda pietra, rovinata su se stessa dopo secoli di silenzio e solitudine, interrotta sporadicamente dalle voci sommesse dei rari visitatori del luogo.
L'ultima considerazione ha un sapore amaro, dettato dalla constatazione che un sito archeologico di così alto valore culturale e storico conosca ancora ai giorni nostri il quasi totale abbandono da parte di tutti quegli organi preposti a mantenere, sorvegliare e valorizzare un luogo che è testimone diretto del nostro passato, confidando in un rapido cambio di rotta prima che anche le ultime tracce vadano perdute per sempre, invito chiunque a dedicare un ritaglio del proprio tempo per andare a vedere le rovine di Castelvecchio! 



sabato 15 gennaio 2011

IL DELITTO DEL CORPUS DOMINI

 di Fabio Cappelli

Come direbbe lo scrittore Carlo Lucarelli, "...quella che vi sto per raccontare è una storia vera, una di quelle storie che mettono paura, una di quelle storie che fanno scendere un brivido freddo lungo la schiena, questa è la storia del delitto del Corpus Domini...".
E' una storiaccia di cronaca nera ormai persa fra i ricordi di una Italia che non esiste più, a dispetto del suo nome che potrebbe rievocare qualche assassinio perpetrato nelle misteriose stanze di una sagrestia ai danni di qualche prelato, questa storia invece parla di un intreccio di amore, gelosia, orrore e bellezza! 
Ma veniamo ai fatti, questa più che la storia del delitto del Corpus Domini, è in primo luogo la storia della bella Elvira, al secolo Elvira Orlandini, una ragazza poco più che ventenne che abitava a Toiano, un isolato e tranquillo borgo d'origine medievale sperduto fra le ondulate colline della campagna fra Palaia e Volterra, circondato in alcuni punti anche da una folta selva, questa è la storia di un delitto appunto, non è una storia romanzata ma un vero fatto di sangue che riempì  all'epoca pagine di giornali, e accese, come sempre accade in questi casi, le morbose esigenze della gente di costruire ipotesi di dietrologismo che oggi come allora accompagnano fatti tanto gravi quanto coperti da un alone di mistero impenetrabile.
Le fonti raccontano che Elvira in quella mattina di un ormai lontanissimo 5 giugno del 1947,  giorno di festività per la ricorrenza del Corpus Domini, si recò ad una fonte d'acqua poco distante da casa sua per riempire delle brocche in una località della quale già il nome evoca delle atmosfere cupe, "il botro della lupa".
Da questo momento in poi il tempo sembra fermarsi, e quando ricomincerà a scorrere lo scempio si è ormai consumato, infatti solo qualche ora dopo che la giovane si era allontanata di casa, i parenti ormai ragionevolmente preoccupati nel non vederla rincasare, decisero di addentrarsi nel fitto della macchia facendone di li a poco la terribile scoperta, Elvira infatti ormai esanime, fu ritrovata in una pozza di sangue e con un profondo fendente alla gola ben assestato da una mano assassina.
Elvira Orlandini
Successivamente a tale evento, che sconvolse profondamente una comunità fatta di persone semplici, si scatenò un'autentica caccia all'uomo, ci furono anche indagini su persone molto vicine alla giovane, si parlò di un amore non corrisposto da parte di qualche uomo della zona che aveva in questo modo deciso di vendicare il rifiuto da parte della ragazza, si parlò di gelosia da parte del fidanzato che con un gesto tanto orrendo avrebbe, almeno nei suoi distorti pensieri, tenuto per sempre con se l'amata donna;  la cronaca nera di allora riempì pagine di giornali, perchè in quell'Italia appena uscita dalla catastrofe della guerra andava bene ogni argomento che facesse evadere la mente dalle ferite ancora fresche delle distruzioni morali e materiali che la popolozione, allora prevalentemente di estrazione contadina, aveva dovuto subire negli anni del conflitto, e così anche la storia di un delitto tanto efferato come quello di Elvira Orlandini poteva paradossalmente servire a far ritornare  lentamente le persone ad una sorta di "normalità".
In seguito, passato il momento comprensibilmente più emotivo, non rimaneva che scoprire la nuda verità, ma col trascorrere dei mesi tutto il ventaglio di ipotesi formulate in maniera più o meno razionale non condussero a niente di certo, la ricerca del colpevole divenne sempre più difficile, fino a sprofondare nella palude dei tanti processi conclusi senza una verità definitiva.
Col tempo quella storia che aveva destato tanto scalpore, che era stata presa a spunto anche da romanzieri e registi per scrivere pagine letterarie e cinematografiche, divenne sempre meno interessante, i giornali trovarono sicuramente qualcosa di più intrigante da portare a gli "onori" della cronaca e alla fine, così come fu per il borgo stesso di Toiano, decadente e ricoperto dai rovi, anche la storia di Elvira scivolò nell'oblio, viva solo nella memoria dei parenti e dei compaesani testimoni diretti di quei tragici avvenimenti.
Sul luogo del misfatto, a ricordo di quella giovane donna prematuramente strappata alla vita fu eretto un cippo commemorativo dove ancora oggi qualcuno passa a deporre un fiore, l'iscrizione su di esso riporta le seguenti parole:

QUI
IL 5 GIUGNO 1947
GIORNO SACRO AL SIGNORE
CADDE
ELVIRA ORLANDINI 
DI ANTONIO
DI ANNI 22
BARBARAMENTE UCCISA
DA MANO ASSASSINA

mercoledì 5 gennaio 2011

PASSEGGIATA D'INIZIO ANNO ALLE LEGGENDARIE FONTI DI PANCOLE

di Fabio Cappelli

LA SCALA - SABATO 1 GENNAIO 2011 

La prima giornata dell'anno si è aperta in un' atmosfera sonnacchiosa, conseguenza delle ore piccole della notte appena trascorsa.
Esattamente 12 ore dopo da quando si erano salutati in direzione letto, si sono ritrovati alle 14:30 per iniziare la camminata post-cenone di Capodanno, tanto per abbattere le calorie di troppo, notte tempo assimilate!.
I protagonisti: Io, Francesca, Leonardo, Oana, Linda e Leone (cane fifone), destinazione le misteriose Fonti di Pancole.
il Parterre sulla sinistra
Prendendo spunto da un articolo apparso su di un blog amico, i nostri argonauti hanno obbligatoriamente dovuto calzare stivali in gomma perfettamente impermeabili,  questo per due ottimi motivi, 1° le incessanti piogge dei giorni scorsi hanno reso i campi  dei pantani, 2° motivo è che per poter compiere la visita del sito si deve entrare e sostare in un ambiente con uno strato d'acqua sul pavimento che in alcuni punti può avere un'altezza di 10cm!
Dall'abitato di La Scala, ci siamo diretti in località le Fonti, che se anche non sono le Fonti di Pancole, dal nome sembrano comunque promettere bene!!!
Passando davanti allo stabilimento della Generosa, un tempo adibito all'imbottigliamento delle acque (che ivi sgorgavano e tutt'ora sgorgano purissime) e che ormai da molti anni è in uno stato di abbandono, abbiamo proseguito verso il trivio le cui strade conducono in ordine da sinistra a destra a la chiesa di S.Pietro alle Fonti, casa Mori, chiesa di S.Lorenzo a Nocicchio, e siccome la verità come dicevano gli antichi romani sta nel mezzo, l'allegra comitiva ha imboccato la via centrale, iniziando un percorso sterrato in leggera salita.
In questo primo tratto, in prossimità di un gruppo di case sulla sinistra, sono state anche notate delle fondamenta su cui poggiano le abitazioni, caratterizzate da arcate in laterizio di manifattura antica, tanto pregiovoli quanto sconosciute nella loro origine.
Tirando innanzi, finalmente siamo in prossimità di casa Mori, qui la strada principale (sterrata ma ben battuta), svolta a 90° verso sinistra, ma va ignorata, infatti il tratto d'interesse del gruppo è in direzione opposta, con una salita che inizia a perdersi nel verde dell'erba dei campi e fra le toppe di fango che qua e la affiorano, talvolta rendendo poco agevole il cammino!
Fonti di Pancole - ingresso
Infine le Fonti di Pancole, una struttura in mattoni, visibilimente antica, in buona parte coperta da vegetazione e in uno stato, a mio dire, di colpevole abbandono vista l'importanza storica del manufatto, che taluni fanno risalire addirittura ad epoca etrusca!
Arrampicandoci per una viscida rampa di terra intrisa d'acqua e dall'acqua percorsa, entriamo; posiamo lo sguardo un pò ovunque per beneficiare della vista di un ambiente fuori dal tempo.
Ah! se i mattoni avessero voce!!
Fonti di Pancole - cisterna
Chissà quanta vita è passata la dentro, quante generazioni hanno attinto a quella fonte per dissetare anime e gole!
Fonti di Pancole - volta a crociera
Ad ogni modo, le indicazioni di portare un buon paio di stivali in gomma erano più che giustificate, il fondo del primo ambiente in cui entriamo, è uno scorrere incessante d'acqua limpida che ci sommerge fino ai piedi, di fronte un piccolo anfratto da cui l'acqua sgorga copioso, in pratica si tratta della fonte vera e propria, che ancora oggi dopo tanti secoli è viva e zampillante; in terra, una serie di motori elettrici in disuso, residuati d'un tempo non lontano, usati per incanalare il prezioso liquido, sulla destra una cisterna dalla profondità stimabile in 2,5 ml, colma ,di un bel colore azzurro, il soffitto è fatto a volte dal quale pendono piccole stalattiti calcaree!
Terminata questa affascinante quanto inusuale visita ad un luogo ricco di tanto fascino, proseguimo tra erba e fango verso un altro luogo che sembra sospeso in un limbo, il Parterre, per qualcuno di noi un ritorno sul luogo del delitto, vecchia conoscenza di scampagnate e merende in età adoloscenziali, un'isola di verde circondata da campi coltivati, uno di quegli strani luoghi che sembrano far convergere a se delle linee di energia, sostiamo qualche minuto, il tempo di far riemergere qualche ricordo legato al posto e poi di nuovo in cammino, oltre il giro di boa, direzione casa.
Il ritorno vede una variante al percorso, che anzichè ricalcare a ritroso la via dell'andata fa una deviazione a la Villa, luogo anch'esso legato all'infanzia di molti scalesi, questo poderoso edificio che domina la valle sottostante racchiude in se chissà quali segreti!
Ci passiamo davanti, lo costeggiamo rispolverando qualche aneddoto legato ai suoi inquilini  più famosi e proseguiamo giù, per quello che un tempo era conosciuto come il campo del Circolo, infatti qui fino a pochi anni fa erano organizzate le feste de l'unità e le feste d'estate che vedevano riunita molta della popolazione scalese, ora tutto ciò è passato alla storia, di quei terreni non rimane niente se non la memoria, quello spazio è stato occupato da nuovi edifici e nuovi abitanti.
Chiesa di S.Pietro alle Fonti
Continuiamo con incedere deciso verso il sottobosco, altro luogo dei ricordi, all'ombra del campanile di San Pietro infatti si sono consumate battaglie fra clan di giovani scalesi a colpi di fionde e nuvoloni di polvere, tra fortini improvvisati e gallerie nella terra, scavate da chissà chi! L'ultimo sforzo per le gambe, vede l'ascesa verso la chiesa da dove possiamo godere di una visuale completa del paese e che di fatto mette fine alla nostra passeggiata, sotto un cielo increspato di nuvole e dai toni arancioni dell'ormai prossimo tramonto.